Berruti e Tortu: Faccia e faccia tra la storia e il futuro dello sprint azzurro su La Stampa

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Foto Lastampa

 

 

Ecco l’intervista di GIULIA ZONCA apparsa oggi sul quotidiano La Stampa:

È passato talmente tanto tempo dall’ultimo azzurro che ha dato segni di vita nel mondo della velocità che una speranza per il futuro non basta. Serve di più: una spinta, una generazione che ne sveglia un’altra, un passaggio di testimone.

Abbiamo fatto incontrare Livio Berruti, oro nei 200 metri ai Giochi 1960, e Filippo Tortu, promessa dello sprint, 18 anni e un argento nei 100 metri agli Europei juniores che autorizza a considerarlo il campione che verrà.

Ci sono quasi 60 anni di differenza tra Tortu e Berruti, ma messi l’uno di fronte all’altro, al circolo Sporting di Torino, diventano subito complici: «Diamoci del tu, il lei tra colleghi non esiste». Berruti ovviamente detta le regole del confronto: «Ti alleni poco vero? E non sei uno che si fa le paranoie giusto? Devi pensare al traguardo, a superare i limiti e a divertirti. Non proprio in quest’ordine».

Il ragazzino annuisce, credeva di avere soggezione invece già ci prende gusto: «Io non mi lascio assillare dalle aspettative altrui. Prima di ogni gara mio padre, che mi allena, imita un pollo e io gli faccio un gestaccio. Se non è presente ci spediamo il rito via WhatsApp». «Ecco bravo. E a tavola come ti comporti? Mangia tanto, la pasta è il nostro motore. Non ti lasciare incastrare da questi guru dell’alimentazione. Soprattutto, sei pigro abbastanza?». E lì scatta la risata collettiva, del padre salvino, del supervisore Alessandro Nocera, che a Torino lavora con il fratello di Tortu, Giacomo, pure lui nel giro della nazionale, e persino della moglie di Berruti: «Livio, ma che fai la predica in chiesa?».

Livio insiste, è chiaro che voglia spostare Tortu il più possibile dall’immagine di Mennea, come noto, non proprio il suo ideale di atleta, ma Tortu è preparato, sa chi ha davanti, lo ha guardato vincere nei filmati in rete. «Dimmi la verità, a Roma la sentivi tutta quella gente che faceva il tifo?», «secondo me sai già la risposta, quando corriamo stiamo attenti ai passi degli avversari, non alle urla del pubblico». E da lì la conversazione prende una svolta quasi intima.

 Scarpe bianche  

Anche Berruti si è presentato dopo aver studiato e ora che il talento gli sta simpatico si spinge a stuzzicarlo: «Tutto bene nei 100 metri, però questa curva dei 200 quando la prendiamo come si deve? Ti fa sbandare? È normale. È più forte di te, non ci puoi correre contro, devi correrci insieme: è un piacere erotico». La prima smorfia della chiacchierata, Filippo sistema i ricci, raccoglie il consiglio e riparte: «Ma quella tua fissazione per le scarpe bianche? Sponsor?». Riscatta la risata: «Lo sponsor è affare tuo che alla tua età hai già un contratto con la Nike. Io non sapevo neanche di averlo uno sponsor. Letteralmente. Avevo la fissa del bianco perché era una sciccheria, a proposito calze sempre in tinta mi raccomando, e per la finale ho messo le scarpe più dure solo per l’estetica. Ho poi scoperto che il legame con un marchio in realtà lo avevo, la Valsport, ma pagava solo il risultato… Ho mancato il premio. Del resto non ho mai avuto un procuratore». Silenzio. Il sottinteso è evidente, si avverte persino un filo di imbarazzo: «Io ne ho già uno». «Lo so che oggi lo sport funziona così, ma la tua generazione proprio non la invidio». Pausa.

 

Il tavolo dibatte sul bisogno di entrare nelle gare giuste, poi si passa ai materiali tecnici, alle trovate per gli allenamenti contemporanei. Berruti sospira: «Sì, sì, la spending review del rendimento. Parolacce». «Mah, io non faccio nessuna di queste cose, ho preoccupazioni più serie: tipo infilare la canotta nei pantaloncini prima del via». «Siamo ormai amici».

 

Povera Italia  

Dopo mezz’ora si abbandonano alle confidenze. «Certo, qualcosa vi invidio. Le colleghe, tutte bellissime. Ai miei, tempi salvo eccezioni, sembravano maschiacci. Ricordo ancora una russa che mi inseguiva. Per fortuna andavo veloce». «Sì, ma tu hai avuto le Olimpiadi in casa, io già so che non mi spettano. Il nostro turno stava per arrivare e ci siamo tirati indietro. Sono deluso, come italiano più che come atleta». «Mi spiace, la politica di oggi non vi aiuta». E il palleggio si ferma lì, per la prima volta Tortu non ribatte, lascia cadere: «Meglio che io stia lontano da certi discorsi, sono entrato nelle Fiamme Gialle e non posso più parlare così liberamente. È anche giusto, mi pagano…». Si aspetta una spallata di ironia di Berruti che invece lo soccorre: «Tranquillo, a Formia è conservata una lettera spedita da mio padre alla Federazione in cui li diffida dal farmi correre i 200 metri. Qualcuno lo aveva convinto che erano pericolosi. I compromessi si trovano».

 

Suona quasi come una benedizione. Ed è anche il punto di massima identità, come se i due «colleghi» di mondi paralleli avessero toccato nervi troppo esposti. Passano ad altro: «Livio, vorrei avere la tua eleganza», «mio caro è innata». Poi Bolt, per Filippo «è il migliore ma il suo modo di stare in pista non mi fa sognare». Livio è più indulgente verso l’esuberanza giamaicana: «All’inizio era spontaneo adesso pare più costruito». Sfiorano il doping, «Non c’erano sostanze giuste per i velocisti, non mi dovevo preoccupare dei bari», «Non lo faccio neanche io. Mi concentro su di me». Bravo, ricorda cosa diceva Bolaffi: «Il successo non ti appartiene». Saluti, promesse. È ora di andare veloce.

 

Berruti e Tortu: Faccia e faccia tra la storia e il futuro dello sprint azzurro su La Stampaultima modifica: 2016-11-21T19:34:15+01:00da atleticanotizie
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